domenica 18 dicembre 2011

Fotografia e giornalismo oggi




La doppia pagina di apertura della cover story dedicata a Massimo Berruti suIL FOTOGRAFO 233.


Il lato giornalistico della fotografia è in crisi…. Lo sento ripetere dall’inizio degli anni Novanta. Il mercato si è contratto. La televisione prima, internet poi hanno eroso spazi sempre maggiori. L’informazione coniugata con l’intrattenimento ha ceduto sempre di più il passo a quest’ultimo, fin quasi a veder soccombere completamente la prima a favore del secondo. Dalla parte dei giornali, e di chi i giornali li fa, questo viene giustificato con l’esigenza commerciale di dare al pubblico quello che il pubblico vuole. Atteggiamento assolutamente pericoloso quando ci si trova di fronte a un pubblico che nel corso degli ultimi due o tre decenni è stato educato a quella superficialità e quel disimpegno che certo non favoriscono l’approfondimento implicito nel genere di fotografia di cui stiamo parlando. Personalmente trovo che tutto questo sia assai pericoloso, se non proprio dannoso a livello sociale soprattutto nel lungo periodo, in quanto contribuisce, e non poco, a generare un pubblico sempre meno cosciente e in grado di discriminare su quanto gli accade intorno. Comunque inutile piangerci sopra perché la situazione che piaccia o meno, è inequivocabilmente questa. Il vero problema per altro non è nemmeno quello della trasformazione della domanda del mercato, quanto piuttosto quello dell'incapacità di pensare un’alternativa da parte dei giornalisti che utilizzano la fotografia per raccontare il mondo. Lo specchio della situazione è stato a mio avviso offerto da quello che si può tranquillamente considerare il più importante Festival di fotografia giornalistica, che da quasi un quarto di secolo si tiene a Perpignan, ai confini tra Francia e Spagna. La rituale visita in occasione dell’edizione 2011 mi ha indotto uno stato di depressione abbastanza consistente, tanto da spingermi a considerare auspicabile quella fine, millantata un po’ da tutti i professionisti di settore da almeno una ventina di anni a questa parte e invece mai sopraggiunta in modo definitivo. Le indicazioni offerte da quanto ho potuto vedere a fine estate nella cittadina ai piedi dei Pirenei sono abbastanza sconcertanti. Si continuano a replicare schemi assodati, parlo di quelli narrativi, ma spesso perfino quelli compositivi riscontrabili all’interno delle singole immagini. Osservando un vasto panorama fotogiornalistico in un ambito spazio temporale ristretto è possibile rendersi conto di come tutti raccontando le stesse cose tendono a utilizzare gli stessi modelli di riferimento. Anche l’approccio alle possibilità offerte dalla tecnologia comunicativa contemporanea, da internet al multimediale, non fanno che aggiornare al supporto digitale tecniche di slideshow ben più che consolidate. Oltretutto con riferimenti discutibili nel momento in cui entrano in gioco competenze differenti da quelle richieste dalla produzione di immagini fisse. Tutti sintomi questi che non mi pare permettano di ben sperare e che, se uniti ai sintomi che provengono dal mercato e dal pubblico, mi hanno fatto pensare che forse sarebbe auspicabile una fine quanto più possibile veloce e rapida, senz’altro da preferire a qualsiasi lenta agonia. In altre parole, se questo è quello che hanno da offrire il reportage, il fotogiornalismo e il fotodocumentarismo, allora tanto vale chiudere bottega subito. Mi rendo conto oggi che sono state riflessioni dettate più che altro dalla delusione, dal rimpianto forse, conclusioni negative e istintive che probabilmente non attendevano altro che di essere smentite. 

La copertina de IL FOTOGRAFO 233
dedicata a Massimo Berruti.
Ma le smentite per fortuna a volte arrivano. E arrivano incontrando un fotografo che in barba alle tendenze generalizzate, non depone le armi, continua a cercare facendo dell’approfondimento e della professionalità il proprio pensiero e la propria azione. Un giornalista che dedica quasi quattro anni a un paese lontano per capire se le cose stanno come raccontano i media internazionali o se la realtà può essere differente. Parlo di Massimo Berruti di cui potete vedere una purtroppo limitata selezione di fotografie nel numero 233 de IL FOTOGRAFO. L’ho incontrato a Parigi qualche giorno fa (vedi post precedente) in occasione della mostra organizzata dalla Fondation Carmignac per celebrare il Premio Fotogiornalismo 2011 che Berruti ha vinto con il suo lavoro sulle milizie pashtun che lottano per mantenere il loro territorio libero dai Talibans. Ascoltando il suo racconto, il suo punto di vista, ma soprattutto le motivazioni che lo hanno spinto a recarsi dall’altra parte del mondo per ricercare la conoscenza di una realtà scoperta in prima persona e riportatarcela senza subire il condizionamento creato dai media internazionali. Un ragionamento e un sentimento che forse sono semplici in valore assoluto, ma che il tempo ci ha portato a perdere di vista, dimenticando quello che dovrebbe essere l’intento principale di ogni reporter e il motivo per cui questa professione è nata. Le parole di Berruti non nego che mi abbiano ridato speranza in un possibile futuro. Vuoi per la ancora giovane età di questo professionista, vuoi perché le motivazioni che lo spingono al lavorare e impegnarsi sono quelle che dovrebbero essere alla base di ogni operare giornalistico che non sia rivolto al mero intrattenimento compiacente del proprio pubblico. Se il fotogiornalismo e il fotodocumentarsimo hanno ancora un senso, al di là delle forme narrative ed espressive attraverso le quali si esprimono, bene allora quel senso può essere solo in una ricerca pura dei fatti, una ricerca che non sia condizionata dall’alleggerimento di tematiche poco gradite se pubblicate a fianco ad una pagina di pubblicità e/o condizionate dagli orientamenti della politica internazionale prevalente. Se il fotogiornalismo ha ancora un senso, l’unico che riesco a individuare rimane quello che giustifica l’esistenza stessa del giornalismo: la ricerca sincera e ininterrotta dell’origine e delle cause degli avvenimenti da offrire a chi non ha la possibilità di verificare di persona. Impariamo a preservare (o recuperare?) innanzitutto questo e poi potremo preccuparci anche di adeguare il linguaggio, che di sicuro ha bisogno di essere svecchiato.
Sandro Iovine
n. 233


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