mercoledì 16 luglio 2014

Sulle tecniche di stampa


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[FuoriFuocoEXTRA] Sulle tecniche di stampa


Dall’ambrotipo al procedimento Obernetter, nel primo dossier EXTRA della rubrica FuoriFuoco, proponiamo una rassegna delle antiche tecniche di stampa fotografica. Ogni procedimento è accompagnato da relativi esempi. Abbiamo scelto, quando possibile, lavori di fotografi contemporanei. Ci sembra infatti che le tecniche analogiche possano spesso restituire le molteplici possibilità espressive legate all’artigianalità del processo fotografico in un’era dove la larga diffusione di apparecchi digitali (dai foto-fonini alle compatte), connessa all’assuefante flusso di immagini della comunicazione contemporanea, tende a uno svuotamento del medium e a un’eterna ripetizione dell’uguale.



“Tre punti fondamentali:

Primo Punto

Per la luce di sicurezza della bacinella dello sviluppo vi consiglio di utilizzare quella giallo-verde o ambra, con la luce rossa è quasi impossibile valutare la stampa.

Secondo Punto

Importantissimo per una camera oscura è avere un ricambio continuo di aria.

Terzo Punto

Le pareti della camera oscura devono essere bianche.”

Luciano Corvaglia, Negativopositivo, Diario di uno stampatore, ed. Postcart, 2011



© patrice dhumes

Ambrotipo

Dal greco indistruttibile. Positivo diretto al collodio umido utilizzato negli anni dal 1853-5 al 1863-5. In genere si tratta di ritratti fortemente sottoesposti che, osservati in particolari condizioni, possono apparire sia positivi che negativi.

La lastra negativa al collodio diviene positiva quando è disposta su un fondo scuro: le ambrotipie venivano presentate e poste in commercio in apposite custodie rivestite di panno nero. L’effetto si otteneva sbiancando con acido nitrico o bicloruro di mercurio un negativo, l’argento annerito si mutava in argento bianco comune e l’immagine diventava quasi positiva. Il nome venne coniato da M. A. Root (1808-1880), mentre James Ambrose Cutting (1814-1867) perfezionò il procedimento aggiungendo canfora e bromuro di potassio al collodio e usando resina d’abete per fissare il vetro alla lastra.

foto di Patrice Dhumes



aristotipo

Aristotipo

Procedimento inventato da Liesegang intorno al 1886 che comprende i positivi al collodio ad annerimento diretto e i positivi alla gelatina ad annerimento diretto (carta al citrato). La carta aristotipica era del tipo ad immagine evidente cioè stampabile a vista per azione diretta della luce solare che, grazie al cloruro d’oro, acquistava tonalità brune intense e doveva poi essere immersa in un bagno di fissaggio per attribuire colorazioni particolari alla copia stampata. Le carte aristotipiche ebbero una notevole diffusione, sostituendo quasi completamente quelle albuminate, ma intorno al 1920 caddero a loro volta in disuso.



autocromia

Autocromia

I fratelli Lumière sfruttarono il principio di J. Joly (vedi procedimento a colori additivo) per le loro lastre autochrome, ideate nel 1904 e poste in vendita nel 1907. La lastra fotografica veniva ricoperta con migliaia di microscopici granelli di fecola, preventivamente colorati. Un terzo dei granelli erano color arancione, un terzo verde, e un terzo violetto; ed erano mescolati insieme in modo che i colori primari fossero distribuiti uniformemente sulla superficie della lastra, che veniva poi ricoperta con l’emulsione. L’esposizione avveniva sul retro della lastra. Una volta sviluppato il negativo si trasformava in positivo con il procedimento dell’inversione, e la diapositiva che ne risultava riproduceva i colori originali. La prima esposizione pubblica negli USA di lastre autochromes di Steichen, F. Eugene e Stieglitz ebbe luogo alle Little Galleries Photo-Secession a New York nel novembre del 1907. La fabbricazione delle lastre fu sospesa nel 1932, per essere sostituita da Filmcolor, Lumicolor e Alticolor su supporto non rigido.



© The Art Institute of Boston

Avoriotipo

Procedimento di origine americana il cui risultato imitava la struttura e luminescenza dell’avorio. Da un negativo dovevano essere ricavate due differenti stampe, una su carta sottile, l’altra su pellicola. Le due immagini venivano montate sovrapposte, unite da uno strato di cera fusa e pressate a caldo su di una lastra di cristallo. Il brevetto venne ottenuto da Mayall nel 1865.

foto di Natalie MacLean – The Art Institute of Boston



© charles guerin

Callitipo

Detto anche Procedimento Van Dyke. Procedimento fotografico a base di sali di ferro (ossalato di ferro) e di nitrato d’argento utilizzato per la stampa a contatto di negativi.

foto di Charles Guerin



© ricardo barquìn molero

Calotipo

Stampa positiva diretta o negativo su carta. Procedimento inventato da Fox Talbot nel 1841 e in uso fino al 1860. La carta, immersa in due soluzioni, una di nitrato d’argento, l’altra di ioduro di potassio, diventava altamente sensibile alla luce dopo un lavaggio con un miscuglio di acido gallico, acido citrico e nitrato d’argento, soluzione che Talbot chiamò gallo-nitrato d’argento. Dopo l’esposizione la carta doveva essere immersa in un bagno della stessa soluzione per far apparire l’immagine. Per fissare il negativo si usava inizialmente bromuro di potassio e più tardi una soluzione calda d’iposolfito e per la stampa, carta impressionata al cloruro d’argento. Dai fogli trattati in cloruro d’argento e gallo-nitrato d’argento di Talbot, si passò ai fogli trattati in soluzione di ioduro di potassio e poi nitrato d’argento, sviluppati in acido gallico (Blanquart-Evrard), con copie eseguite su carta all’albumina. Oppure carta sensibilizzata con acqua di riso, miele e bianco d’uovo e bagnata in nitrato d’argento (Le Gray) che cerava il negativo. Il calotipo permetteva di ottenere copie a contatto; le stampe, però, presentavano una certa granulosità.

foto di Ricardo Barquìn Molero



© andrea baldi

Cianotipo

Stampa su carta cianografica. Procedimento di copia a ricalco fotografico a contatto diretto messo a punto da Hershel intorno al 1842, non argentico, bensì basato sulla sensibilità dei sali ferrici. Detto anche procedimento al ferroprussiato.

foto di Andrea Baldi



collotipo

Collotipo

Variante della fotolitografia. Come evoluzione della tecnica ideata da Alphonse Louis Poitevin intorno al 1850, nel 1868 Joseph Albert (1825-1886) di Monaco fece aderire al vetro finemente smerigliato uno strato di gelatina bicromatata indurendola poi con l’esposizione alla luce. Il procedimento è basato sulla proprietà del bicromato di potassio di alterare la solubilità in acqua di colloidi come albume, gelatina, gomma arabica, se esposti alla luce. La gelatina assumeva, essiccandosi un andamento reticolare. Su questo strato se ne spalmava un altro della stessa sostanza, destinato a riprodurre l’immagine. Si usavano poi due tipi di inchiostrazione spessa per le ombre. Il metodo era detto anche Albertype o Albertipia.



© Li Junyi

Dagherrotipo

Immagine fotochimica unica su lastra di rame o positivo diretto con destra e sinistra invertite rispetto al soggetto. Louis Jacques Mandé Daguerre nel 1839 aveva scoperto l’immagine latente sulle lastre di rame argentato (cm 16×21), che si rivelava ai vapori di mercurio. Per ottenere un dagherrotipo il procedimento era in linea generale come segue: (1) Pulitura e lucidatura di una lastra di rame argentata; (2) Sensibilizzazione della lastra per mezzo dei vapori di iodio: questa operazione si effettuava all’interno di un’apposita scatola e serviva a formare un sottile strato di ioduro d’argento sulla superficie della lastra stessa; (3) Sviluppo mediante vapori di mercurio riscaldato i quali, depositandosi sulle parti impressionate dalla luce, le rendevano chiare in campo scuro; (4) Fissaggio con iposolfito di sodio. Le lastre usate erano di misure standardizzate: cm. 21.5×16.5; 10.5×8; 7×5.5; 16×12; 8×7.

foto di Li Junyi



eliotipo

Eliotipia

Tipo di fotoriproduzione ad intaglio mediante il quale si ottengono sia incisioni in incavo che a rilievo. La lastra di rame lucidato viene preparata con polvere di resina. Sulla lastra preparata si trasferisce l’immagine stampata su un tessuto al carbone. Le parti dell’immagine rimaste solubili vengono sciolte in acqua calda. La lastra viene poi esposta a più morsure di percloruro di ferro preparato in varie concentrazioni che producono un intaglio proporzionale ai toni della fotografia originale. In questo intaglio va a depositarsi l’inchiostro per la stampa. La tecnica è stata ideata da Karel Vàclav Klic.



© phil nesmith

Ferrotipo

Tipo di positivo diretto, ottenuto su lastrine di latta smaltate e sensibilizzate, inventato da Adolphe-Alexandre Martin nel 1852. I Neff, peraltro, ottennero in cessione il brevetto per fabbricare lastre laccate da Hamilton L. Smith nel 1856, e in quello stesso anno cominciarono a fabbricare le lastre preparate che chiamarono Melainotype, ma prevalse il nome assegnatogli da un altro fabbricante, Victor M. Griswold. Il procedimento consiste nel preparare sottili fogli di ferro, laccati di nero e coperti da un’emulsione sensibile, in genere gelatina al bromuro, ma anche al collodio che, dopo lo sviluppo, dà un’immagine positiva di riflesso.

foto di Phil Nesmith



© karena goldfinch

Fotocalcografia

Incisione incavografica su lastra di rame appositamente preparata, ottenuta fotograficamente, grazie alle proprietà della gelatina e di altri colloidi (specialmente albumina e gomma) di risultare, in presenza di bicromato di potassio, idrorepellente dopo l’esposizione alla luce. Questa tecnica viene solitamente usata per le illustrazioni dei rotocalchi.

foto di Karena Goldfinch



lichtdruck Lichtdruck



Procedimento di tipo collotipico consistente nel trasformare un negativo in un positivo al cloruro d’argento. Ideato da J.B. Obernetter nel 1886. L’immagine ottenuta viene trasferita su una lastra di rame decomponendola mediante elettrolisi: il cloro liberato incide la lastra di rame in proporzione al cloruro d’argento che forma l’immagine stessa.



© rosario tinnirello

Oleotipia

Procedimento di riproduzione fotografica con inchiostro grasso, su carta gelatinata, preventivamente trattata con bicromato di potassio, utilizzato per lo più nella riproduzione di stampe artistiche; fu realizzato nel 1855 da Poitevin. Tipo di stampa al pigmento.

foto di Rosario Tinnirello



© wolfgang moersch

Palladiotipia

Processo delicato e costoso, per l’impiego di sali di metalli nobili. Le immagini prodotte offrono però un’eccellente stabilità nel tempo. La sensibilizzazione viene fatta con tre soluzioni, da mescolare opportunamente prima dell’uso. La prima è a base di acido ossalico e ossalato ferrico; la seconda contiene acido ossalico, ossalato ferrico e clorato di potassio; la terza, cloroplatinito o cloropalladiato di potassio (Platinotipia o Palladiotipia). Oltre al costo e alla difficile reperibilità dei sali di platino e di palladio, va tenuto presente che l’ossalato ferrico del commercio non è sempre sufficientemente puro; è quindi preferibile prepararlo in proprio. Immediatamente prima dell’uso si mescolano le prime due soluzioni e si aggiungono alcune gocce della terza: con questa miscela si sensibilizza la carta in luce attenuata, asciugandola poi fino a perfetta secchezza. Si espone per contatto sotto un negativo e si sviluppa in una soluzione satura di ossalato di potassio. Si tratta poi con acido cloridrico diluito, si lava a fondo e si asciuga.

foto di Wolfang Moersch



© mike chervinko

Platinotipia

Tipo di stampa con carta ai sali di platino, dovuto a William Willis tra il 1873 e il 1879, che si basa sulla proprietà dei sali di ferro di passare dallo stato ferrico a quello ferroso per esposizione alla luce. In presenza del formarsi di sali ferrosi i sali di platino, se sviluppati in ossalato di potassio, si trasformano in platino, metallo ben più stabile dell’argento. La carta sensibilizzata fu messa sul mercato dalla Platinotype Company di Londra.

foto di Mike Chervinko



© spiffy tumbleweed Procedimeno al carbone



Il procedimento di stampa brevettato da Alphonse Louis Poitevin nel 1855 consisteva nel mescolare particelle di carbone con gelatina e bicromato di potassio. La carta veniva ricoperta con quest’emulsione e asciugata. Dopo l’esposizione attraverso il negativo, si scioglievano in acqua le parti non impressionate, ottenendo cosi un’immagine con chiaroscuri proporzionali alla densità e alla trasparenza del negativo. I mezzi toni non erano resi in maniera soddisfacente e nel 1864 Sir Joseph Wilson Swan brevettò un procedimento di trasporto (transfert) su carta al carbone, acquistabile in commercio in tre diverse gradazioni di contrasto e in tre differenti colori, nera, seppia e bruno-rossastra, che doveva essere sensibilizzata in soluzione di bicromato di potassio. Una volta asciugato, il foglio era esposto a contatto con un negativo e quindi immerso nell’acqua insieme ad un foglio di carta bianca. Quando i fogli erano ben umidi, venivano fatti asciugare insieme, poi nuovamente immersi in acqua calda. La gelatina che non era stata esposta si dissolveva, permettendo così al fotografo di togliere il supporto di carta e conservare invece la superficie esposta. Poiché l’immagine era rovesciata di lato, solitamente si eseguiva un secondo transfert.

foto di Spiffy Tumbleweed



© harry warnecke

Procedimento Carbro

Detto anche Ozobromia. Il procedimento di stampa carbro ideato da Thes Manley nel 1905 (da CARbone BROmuro) permette di trasformare una stampa alla gelatina – bromuro d’argento, mettendola a contatto con un materiale particolare, ovvero il foglio carbro cosparso di gelatina al pigmento sensibilizzato in una soluzione di bicromato di potassio e in un bagno sbiancante. Per azione chimica e grazie ad una serie di trasporti si ottiene un’immagine monocroma che non sbiadisce.

foto di Harry Warnecke, 1949. Collezione John Lloyd Lovell





© silvino gonzález morales

Procedimento alla carta salata

La carta salata (salted paper, in inglese) è un antico procedimento di stampa fotografica inventato da William Henry Fox Talbot nel 1833 circa.
Il nome generico con cui viene indicato questo processo deriva dal fatto che dei fogli di carta vengono intrisi di un sale comune, tipicamente cloruro di sodio o di ammonio, per poi essere fatti reagire con nitrato d’argento. In questo modo si formava cloruro d’argento, instabile alla luce, ciò consentiva la formazione di immagini fotografiche.
La carta salata è stata una delle prime carte sensibili usate in fotografia. Il trasferimento dell’immagine, dal negativo alla carta, avveniva all’interno di un torchietto dove erano messe a contatto, esponendole all’azione del sole. Aprendo posteriormente il torchietto, si poteva controllare lo stato della stampa interrompendo il processo quando si riteneva di aver raggiunto l’annerimento giusto. Per questa ragione la carta salata è detta “ ad annerimento diretto”.
Le formule consigliate variavano leggermente secondo il tipo di carta mentre il modo di operare era identico per i due tipi. Si iniziava con la salatura della carta e, dopo asciugatura, si procedeva alla sensibilizzazione con nitrato d’argento.

foto di Silvino González Morales



© dave molnar

Procedimento alla gomma bicromatata

Semplificazione delle tecniche di stampa al carbone. il procedimento si basa sulla proprietà della gomma arabica, in presenza di bicromato di potassio, di modificare la propria idrosolubilità se esposta per qualche tempo alla luce. Quanto più forte è l’azione della luce sulla gomma bicromatata tanto meno facilmente questa si scioglie. Un pigmento viene mescolato con la gomma bicromatata e applicato sulla superficie di un foglio di carta da disegno, che viene quindi lavato. Una volta asciutto, il foglio viene messo sotto un negativo ed esposto alla luce. Poi si lava con acqua calda e allora appare l’immagine. Lo sviluppo è fatto con un pennello. Se sulla carta si versa acqua caldissima, tutto il pigmento viene tolto. Le zone deboli possono essere rafforzate rivestendo nuovamente la carta con gomma arabica e pigmento. In questo modo si possono applicare colori diversi sullo stesso foglio di carta. Molte combinazioni sono così possibili: si può rivestire di gomma un foglio di platino e stamparlo di nuovo per dargli maggiore profondità.

foto di Dave Molnar



© guenther wilhelm

Procedimento Obernetter

Procedimento positivo ai sali di rame, col quale è possibile ottenere un’immagine trattandola con solfocianato di potassio e poi con defficianuro di potassio. La carta esposta, se non viene trattata subito, perde rapidamente l’immagine impressa e può essere di nuovo utilizzata per un’altra stampa.

foto di Guenther Wilhelm

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