Anna Maria Borghese, nata De Ferrari, non fu la prima né l’unica aristocratica appassionata di fotografia. Ai suoi tempi, ovvero agli inizi del Novecento, la regina d’Italia Elena di Montenegro, moglie di Vittorio Emanuele III, ne condivideva l’hobby e la surclassava per posizione gerarchica se non per sangue blu.
Aver sposato Scipione Borghese, diplomatico, viaggiatore accanito e automobilista avventuroso (è quello della Pechini-Parigi) offrì però alla nobildonna il vantaggio competitivo di occasioni straordinarie di ripresa esotica ai quattro angoli del mondo.
La mostra che le ha dedicato recentemente L’Istituto nazionale della grafica (riassunta nel grazioso catalogo Racconto di un’epoca edito da Peliti), ci mostra una fotoamatrice di gusto medio, capace di qualche bella inquadratura, ma anche di molte debolezze; trattandosi della selezione del meglio, si suppone, tra le ottomila immagini che la principessa ci ha lasciato, si può dire che non sia proprio la scoperta di un genio incompreso.
A suo merito, di sicuro, va l’assenza di qualsiasi tentazione pittorialista: se sfumati ci sono, sono difetti, la signora sembra affezionata all’immagine diretta e senza interventi “in post-produzione”. Ma certo in Inghilterra, lady Clementina Hawarden aveva tempo prima mostrato un po’ più di talento e di originalità.
Un album, però, tanto più interessante, a parer mio, proprio per queste sue discontinuità. Sfogliandolo, ho sobbalzato almeno tre volte. Dove ho già visto questa?, mi sono sorpreso a domandarmi di fronte ad alcuni scatti.
Anna Maria Borghese, Migliarino, 1899
William Henry Fox Talbot, The Haystack, 1844
Nella sua tenuta di Migliarino, vicino a Ferrara, ad esempio, la signora Borghese produce nel 1899 l’immagine “di genere” di un pagliaio a forma di casetta con una scala a pioli appoggiata.
Qui chiunque abbia un po’di familiarità con la storia della fotografia è strettamente obbligato a ritornare con la mente all’Haystack di Talbot, realizzato oltre cinquant’anni prima.
Il gioco della texture e dell’ombra proiettata è lo stesso, benché l’immagine della principessa sia meno essenziale e più “animata” di quella, splendidamente grafica e sottilmente antinaturalistica, dell’inventore del calotipo.
Poteva la signora Borghese avere già visto quell’immagine? Possibile, anche se improbabile, ma certo cronologicamente possibile, dunque fino a qui nulla di strano.
Anna Maria Borghese, Lac du Bois de Boulogne, 1901-1902
Jacques-Henri Lartigue, Patinage sur le lac du Bois de Boulogne, 1906
Poi però un dubbio più stuzzicante mi assale di fronte alla sua immagine del patinoirdel Bois de Boulogne, presa tra il 1900 e il 1902.
Per via di quelle silhouettenere sul bianco del ghiaccio che troviamo ripetute come un cliché in almeno una mezza dozzina di fotografie prese nello stesso luogo e negli stessi anni da diversi fotografi, tra cui il grande Jacques-Henri Lartigue, santo patrono dei fotoamatori d’ogni tempo.
Anna Maria Borghese, Cina, 1907
Aleksander Rodcenko, Manifestazione, Mosca 1928
Quando invece nel 1907, in Cina, fotografa dall’alto in basso l’approdo di una chiatta a quella che sembra la fiancata di un barcone o il bordo di una banchina, di certo non può aver visto le dinamiche prospettive a strapiombo che Rodcenko non produrrà che un ventennio più tardi, ma questa immagine sembra (ingenuamente? Casualmente?) anticiparle.
È evidente che non si tratta più di smascherare copie e copioni. È chiaro che il lavoro di Anna Maria Borghese, dilettante facoltosa, colta e assidua, è un eccellente laboratorio per studiare quell’effetto carsico di rincorsa, risurrezione e ripetizione tra le icone che ha ispirato a Geoff Dyer un libro che non mi stanco di consigliare, The Ongoing Moment(tradotto in italiano L’infinito istante), quel fenomeno per cui un soggetto identificato prevalentemente con un singolo fotografo si trova in realtà come un’eco nell’opera di altri, distanti nello spazio e nel tempo, in forme sorpendentemente analoghe.
Sembra esserci insomma nella fotografia, come nell’arte medievale (raccontata in questa chiave da da Henri Focillon) una “vita delle forme” indipendente dalla volontà dei creatori, che sfugge al controllo e all’appropriazione del genio individuale, e appartiene a una sorta di fondo iconico-antropologico, a un patrimonio segreto e inconscio della comunità dei vedenti.
È come se fossero le fotografie in quanto “forme originarie”, quasi idee platoniche, a volersi manifestare attraverso i fotografi che di volta in volta diventano i loro provvisori portavoce. Sono i fotografi che fanno le fotografie, allora, o sono le fotografie che fanno i fotografi?
Questa riflessione di solito non piace ai fotografi, affezionati all’idea del marchio creativo inimitabile, alla nozione di stile personale che in questo modo diventa solo l’insistenza, in un singolo autore, su alcuni soggetti inconsapevolmente prelevati dal grande repertorio a disposizione di tutti.
Tornando alla nostra principessa, che possiede una certa pratica e un certo gusto ma non uno stile preciso e deciso, il fenomeno della trasmigrazione delle icone, della volontà delle fotografie di incarnarsi attraverso lo sguardo di turno, è molto evidente. Bucolica nelle scene di campagna, raffinata nei ritratti posati liberty, lirica nei paesaggi, decadente negli interni, la nobildonna viene trascinata verso lo stile documentario nelle foto di viaggio e in quelle di vero e proprio reportage dal fronte.
Nel 1917, crocerossina in un ospedale militare, fotografa un intestino umano sanguinolento poggiato per terra su un telo bianco. Per chi era quell’immagine? Chi l’ha voluta? Forse la fotografa l’ha solo subita, come si subisce un richiamo misterioso dal profondo dell’anima.
Ci vuole comunque un certo spirito anche per accogliere il richiamo della foresta delle icone. E dunque complimenti, principessa, lei andò molto vicino a capire cos’è la fotografia, più di tanti più bravi e famosi di lei.
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