L'invenzione della fotografia
Verso la fine del 1700 l'inglese Thomas Wedgwood, figlio di un famoso ceramista di quel tempo, sperimentò l'utilizzo del nitrato d'argento, prima rivestendone l'interno di recipienti ceramici, poi immergendovi dei fogli di carta esposti poi alla luce dopo avervi deposto degli oggetti. Si accorse che dove la luce colpiva il foglio, la sostanza si anneriva, mentre rimaneva chiara nelle zone coperte dagli oggetti. Queste immagini, però, non si stabilizzavano e perdevano rapidamentecontrasto se mantenute alla luce naturale, mentre riposti all'oscuro potevano essere viste alla luce di una lampada (a olio) o di una candela. Utilizzò anche il cuoio come materiale e sistemò dei fogli sensibilizzati all'interno di una camera oscura senza però ottenere risultato alcuno. A causa della salute cagionevole non poté proseguire negli studi che nel 1802 l'amico Sir Humphry Davy descrisse sul "Journal of the Royal Institution of Great Britain", annotando però che non era stato compreso il meccanismo per interrompere il processo di sensibilizzazione.[3] La corrispondenza con James Watt, fa ritenere che nel 1790 - 1791 avvenne la prima impressione di un'immagine chimica su carta.
« Doveva tenersi il 7 aprile 2008 da Sotheby's ma l'asta è stata rinviata. Si tratta di un foglio di carta attribuito a Thomas Wedgwood con impressa una foglia d'albero. Finora si pensava che fosse un "disegno fotogenico" di Talbot ma una piccola W impressa in un angolo ha fatto ricredere lo storico della fotografia Larry Schaaf. Occorrerà anticipare la realizzazione della prima fotografia stabile a distanza di tempo di un ventennio.[4] » | |
Joseph Nicephore Niepce si interessò della recente scoperta della litografia e approfondì gli studi alla ricerca di una sostanza che potesse impressionarsi alla luce in maniera esatta mantenendo il risultato nel tempo. Il 5 maggio 1816, Joseph Niepce scrisse al fratello Claude del suo ultimo esperimento, un foglio bagnato di cloruro d'argento ed esposto all'interno di una piccola camera oscura. L'immagine risultante apparì invertita, con gli oggetti bianchi su fondo nero. Questo negativo non soddisfece Niepce, che proseguì la ricerca di un procedimento per ottenere direttamente il positivo. Scoprì che il bitume di Giudea era sensibile alla luce e lo utilizzò nel 1822 per produrre delle copie di una incisione del cardinale di Reims, Georges I d'Amboise. Il bitume di Giudea è un tipo di asfalto normalmente solubile all'olio di lavanda, che una volta esposto alla luce indurisce. Niepce cosparse una lastra di peltro con questa sostanza e vi sovrappose l'incisione del cardinale. Dove la luce riuscì a raggiungere la lastra di peltro attraverso le zone chiare dell'incisione, sensibilizzò il bitume, che indurendosi non poté essere eliminato dal successivo lavaggio con olio di lavanda. La superficie rimasta scoperta venne scavata con dell'acquaforte e la lastra finale poté essere utilizzata per la stampa.
Niepce chiamò questo procedimento eliografia e lo utilizzò anche in camera oscura per produrre dei positivi su lastre di stagno. Dopo l'esposizione alla luce e il successivo lavaggio per eliminare il bitume non sensibilizzato, utilizzò i vapori di iodio per annerire le zone lavate dal bitume. A causa della lunghissima esposizione necessaria, fino a otto ore, le riprese all'esterno furono penalizzate dalla luce solare che, cambiando orientamento, rese l'immagine irreale. Maggior successo ebbero le eliografie con luce controllata, ovvero in interni, e su lastre di vetro.
Nel 1827, durante il viaggio verso Londra per trovare il fratello Claude, Niepce si fermò a Parigi e incontrò Louis Jacques Mandé Daguerre: quest'ultimo era già stato informato del lavoro di Niepce dall'ottico Charles Chevalier, fornitore per entrambi di lenti per la camera oscura. Daguerre era un pittore parigino di discreto successo, conosciuto principalmente per aver realizzato il diorama, un teatro che presentava grandi quadri e giochi di luce, per cui Daguerre utilizzava la camera oscura per assicurarsi una prospettiva corretta.
A Londra Niepce presentò l'eliografia alla Royal Society, che non accettò la comunicazione perché Niepce non volle rivelare tutto il procedimento. Tornò a Parigi e si mise in contatto con Daguerre, con il quale concluse nel dicembre 1829 uncontratto valido dieci anni per continuare le ricerche in comune. Dopo quattro anni, nel 1833, Niepce morì senza aver potuto pubblicare il suo procedimento. Il figlio Isidore prese il posto nell'associazione con Daguerre, ma non fornì alcun contributo, tanto che Daguerre modificò il contratto e impose il nome dell'invenzione in dagherrotipia, anche se mantenne il contributo di Joseph Niepce. Isidore firmò la modifica pur ritenendola ingiusta. Il nuovo procedimento era molto diverso rispetto a quello originario preparato da Joseph Niepce, quindi si può ritenere in parte corretta la rivendicazione di Daguerre.
Nel 1837 la tecnica raggiunta da Daguerre fu sufficientemente matura da produrre una natura morta di grande pregio. Daguerre utilizzò una lastra di rame con applicata una sottile foglia di argento lucidato, che posta sopra a vapori di iodio reagiva formando ioduro d'argento. Seguì l'esposizione alla camera oscura dove la luce rendeva lo ioduro d'argento nuovamente argento in un modo proporzionale alla luce ricevuta. L'immagine non risultava visibile fino all'esposizione ai vapori di mercurio. Un bagno in una forte soluzione di sale comune fissava, seppure non stabilmente, l'immagine.
In cerca di fondi, Daguerre fu contattato da François Arago, che propose l'acquisto del procedimento da parte dello Stato. Il 6 gennaio 1839 la scoperta di una tecnica per dipingere con la luce fu resa nota con toni entusiastici sul quotidiano Gazette de France e il 19 gennaio nel Literary Gazette.
Il procedimento venne reso pubblico il 19 agosto 1839, quando, in una riunione dell'Accademia delle Scienze e dell'Accademia delle Belle arti, venne presentato nei particolari tecnici all'assemblea e alla folla radunatesi all'esterno. Arago descrisse la storia e la tecnica legata al dagherrotipo, inoltre presentò una relazione del pittore Paul Delaroche, in cui furono esaltati i minuziosi dettagli dell'immagine e dove si affermò che gli artisti e gli incisori non erano minacciati dalla fotografia, anzi potevano utilizzare il nuovo mezzo per lo studio e l'analisi delle vedute. La relazione terminò con il seguente appunto di Delaroche:
« Per concludere, la mirabile scoperta di monsieur Daguerre ha reso un servizio immenso alle arti. » | |
(Paul Delaroche)
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Daguerre pubblicò un manuale (Historique et description des procédés du dagguerréotype et du diorama) tradotto ed esportato in tutto il mondo, contenente la descrizione dell'eliografia di Niepce e i dettagli della dagherrotipia. Con il cognatoAlphonse Giroux, Daguerre si accordò per la fabbricazione delle camere oscure necessarie. Costruite in legno, furono provviste delle lenti acromatiche progettate da Chevalier nel 1829. Questi obiettivi avevano una lunghezza focale di 40,6 cme una luminosità di f/16, il costo si aggirava intorno ai 400 franchi. Anche se il procedimento fu reso pubblico in Francia, Daguerre acquisì un brevetto in Inghilterra, con il quale impose delle licenze per l'utilizzo della sua scoperta.
In Italia i primi esperimenti di fotografia sono condotti da Enrico Federico Jest e da Antonio Rasetti nell' ottobre del 1839 con un macchinario di loro costruzione basato sui progetti di Daguerre. Le prime fotografie italiane sono vedute del tempio della gran madre, di piazza castello, e di palazzo reale, tutte a Torino.
[modifica]Perfezionamento di tecnologie e materiali
Ma gli sforzi furono anche indirizzati al perfezionamento dei materiali sensibili, dei procedimenti di sviluppo e degli strumenti ottici. Tra le innovazioni più importanti si ricordano: l'introduzione degli apparecchi fotografici portatili (1880); l'introduzione delle pellicole in rullo, realizzate per la prima volta da G. Eastman inizialmente con supporto in carta (1888) e successivamente con supporto incelluloide (1891).
Nel 1890 F. Hurter e V. C. Driffield iniziarono lo studio sistematico della sensibilità alla luce delle emulsioni, dando origine alla sensitometria. Un considerevole miglioramento delle prestazioni degliobiettivi si ebbe nel 1893, quando H. D. Taylor introdusse un obiettivo anastigmatico (tripletto di Cooke) con sole tre lenti non collate; tale obiettivo fu perfezionato da P. Rudolph nel 1902 con l'introduzione di un elemento posteriore collato e venne prodotto l'anno dopo dalla Zeiss, con il nome di tessar.
Altri progressi si ebbero con l'introduzione del sistema reflex (1928) e degli strati antiriflesso sulle superfici esterne delle lenti (che migliorarono enormemente la trasmissione tra aria e vetro e il contrasto degli obiettivi) e con il processo Polaroid in bianco e nero (che permetteva di ottenere in pochi secondi una copia positiva, utilizzando un apparecchio e una pellicola speciali), introdotto nel 1948 da E. H. Land e successivamente esteso al colore.
Negli anni Sessanta con gli esposimetri incorporati nelle macchine fotografiche ebbe inizio l'epoca degli automatismi: l'evoluzione tecnologica in tale campo fu tale che alla fine degli anni Ottanta, con la miniaturizzazione dei circuiti elettronici, la messa a fuoco e l'esposizione diventano completamente automatiche; inoltre micromotori provvedono al caricamento della pellicola, al suo avanzamento dopo ogni scatto, e al riavvolgimento nel caricatore al termine dell'uso.
Negli anni Ottanta entrarono in produzione macchine per la fotografia digitale che al posto della pellicola avevano un CCD (Charge Coupled Device), lo stesso elemento sensibile delle videocamere.
Questo componente era in grado di analizzare l'intensità luminosa e il colore dei vari punti che costituiscono l'immagine e di trasformarli in segnali elettrici che venivano poi registrati su un supporto magnetico (nastro o disco) che poteva contenere alcune decine di immagini. L'immagine registrata poteva essere immediatamente rivista su un monitor, stampata da un'apposita stampante, o spedita, via cavo o via etere, a qualsiasi distanza.
Macchine di questo tipo venivano usate soprattutto dai fotoreporter, perché permettevano l'immediata trasmissione delle foto ai giornali, che non hanno bisogno di immagini ad alta definizione.
L'inconveniente principale della fotografia elettronica era infatti la scarsa definizione delle immagini, in confronto a quella della fotografia tradizionale. Notevole diffusione ha avuto l'elaborazione elettronica delle immagini fotografiche, che, digitalizzate da uno scanner ad alta definizione, possono essere corrette ed elaborate a piacere (eliminazione di dominanti cromatiche, modifica dei colori, cancellazione e aggiunta di parti di immagine, fino a ottenere fotomontaggi quasi perfetti). L'immagine elaborata viene poi stampata su pellicola, con la stessa definizione dell'originale.
Negli ultimi anni lo sviluppo della fotografia digitale ha avuto implicazioni incredibili sia nella fase di ripresa delle immagini che in quella di riproduzione. Da un lato i sofisticati sistemi di esposizione, messa a fuoco, inquadratura e disponibilità immediata delle immagini in fase di ripresa e dall'altro la loro elaborazione sul computer hanno ridimensionato il lavoro di camera oscura per lo sviluppo del negativo e/o della diapositiva e per la loro stampa. Essa richiedeva lunghe ore al buio, pazienza e risorse economiche, al punto che grandi fotografi utilizzavano spesso laboratori professionali per le loro immagini. Oggi il processo è alla portata di tutti grazie alle immagini digitali che possono essere ritoccate, modificate e trasferite con il computer di casa propria, avvalendosi di programmi di editing e/o fotoritocco e modalità di archiviazione di file anziché di voluminosa carta che hanno in gran parte ridotto la domanda di pellicole e di stampa tradizionale delle foto.
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