domenica 14 luglio 2013

sguardi 88 di nital.it

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   Sguardi 88


Intervista

A cura di: Antonio Politano
Fabio Bucciarelli, WPP

Andare sul terreno, cercare di documentare il mondo che cambia. Realtà deboli e sofferenti, lontane dai nostri occhi. Entrare in empatia, cercare la verità, dare voce - attraverso le immagini - agli ultimi. Fabio Buciarelli è un reporter di razza, riconosciuto internazionalmente grazie a foto divenute memorabili e a importantissimi premi che lo hanno consacrato di recente, dal World Press Photo al Robert Capa Gold Medal Award. I premi, per fortuna, non sembrano averlo cambiato. Continua a fare il suo mestiere di fotografo documentario che incentra il proprio lavoro su alcuni degli eventi di un mondo in cambiamento, sui conflitti e le loro conseguenze umanitarie: la Libia, dalle prime fasi della ribellione fino alla morte di Gheddafi, la Siria della guerra civile, i paesi dimenticati d’Africa come il Sud Sudan e il Mali. A Sguardi racconta inizi e progetti, approcci e immersioni, l’urgenza di narrare lestorie di persone dentro e dietro il fronte. Ad accompagnare l’intervista, la gallery delle foto con cui Bucciarelli ha vinto il Wpp (integrate dall’immagine del cadavere di Gheddafi) e la gallery di alcune delle immagini vincitrici dell’ultima edizione del Wpp, compreso la foto dell’anno 2012 dello svedese Paul Hansen.


Paul Hansen, Svezia, Dagens Nyheter - 20 novembre 2012, città di Gaza, Territori Palestinesi

Partiamo dai premi recenti e importanti. Con Battle to Death, il reportage dalla Siria, nel giro di pochi mesi ti sei aggiudicato il secondo posto nella categoria Spot News Story al World Press Photo e il Robert Capa Gold Medal Award, per alcuni il Nobel del fotogiornalismo. Che significano per te questi riconoscimenti?

I premi ricevuti sono un enorme riconoscimento al lavoro fatto durante l’ultimo anno. È un piacere essere ilsecondo italiano a ricevere la Robert Capa Gold Medal (dopo Paolo Pellegrin) e vedere il proprio nome con quello dei fotogiornalisti che hanno fatto la storia della fotografia. Ma il vero onore è avere dato visibilità a ciò che da più di due anni succede in Siria. Anche grazie a questi riconoscimenti internazionali, è cresciuto l’interesse mediatico sulla guerra civile siriana. Questo è quanto conta.

Cambiamenti, rivoluzioni, proteste, crisi, guerre, diritti violati, la Storia con la maiuscola che si fa e ribolle. Raccontare per immagini, fissare momenti, testimoniare. Tu come definiresti il tuo lavoro, come ti definisci?

Lo scopo del giornalista è quello di cercare la verità. In guerra molte volte trovare la verità è compito ancora più arduo. Sapere il vero, quello che sta succedendo dall’altra parte del mondo, è di fondamentale importanza. Il giornalista diventa quindi testimone della storia e ambasciatore di un’informazione necessaria.


© Fabio Bucciarelli/AFP, A Free Syrian Army fighter takes up a position during clashes against government forces in the Sulemain Halabi district.

Che rapporto hai con la guerra? Con la sua quotidianità, la paura, l’incertezza, la routine, il dramma, il coraggio e la disperazione, la roulette russa che coinvolge chi combatte e la popolazione civile.

La guerra è il peggiore dei mali dell’uomo. In guerra si combatte e vince chi uccide il prossimo. Durante lesituazioni di conflitto, i sentimenti dell’uomo sono alla loro massima espressione: odio, amore, felicità e dolore ti travolgono e rimangono dentro di te. Ogni conflitto che ho coperto fino ad ora lo porto dentro, è diventato partedi me. Come professionista, una volta sul campo, ho chiare le ragioni per cui sono lì: dare voce, attraverso le immagini, agli ultimi e alla loro sofferenze. Molte volte sono civili, donne e bambini che vivono e muoiono sotto le bombe. La paura fa parte del lavoro: diffido sempre da chi mi dice di non avere paura. Credo sia normale in una situazione di conflitto. L’importante non è avere paura, ma come si reagisce alla paura.


© Fabio Bucciarelli, Il corpo di Gheddafi il giorno della sua morte in una casa privata dei ribelli fuori da Misurata

In Siria eri vicinissimo, dentro il fronte e dietro le quinte; in Libia davanti al cadavere di Gheddafi steso su un materasso insanguinato; in Mali embedded tra le truppe francesi. Come cambiano gli scenari e come si adatta il tuo sguardo? Come ti muovi nel tentativo di catturare l’azione?

Ogni guerra è diversa dalla precedente e dalla successiva; ogni popolo ha la sua cultura e le sue abitudini. Inoltre, per un giornalista, la prospettiva cambia in relazione alla parte da cui documenta il conflitto. In Libia per esempio, ho coperto la guerra civile dal suo inizio fino alla morte di Gheddafi dalla parte dei Guerriglieri della Rivoluzione. Medici, avvocati, muratori e insegnanti. La popolazione civile, stanca di una dittatura quarantennale, ha imbracciato le armi per rovesciare il satrapo. In questo contesto, i “cosiddetti ribelli” mi hanno aiutato, dato da mangiare e protetto nei momenti più pericolosi. Erano consci del ruolo fondamentale dei giornalisti e del loro dovere di informare sul conflitto in atto. In Siria la situazione è più delicata e le variabili in gioco sono più numerose, ma a grandi linee è successo lo stesso: lavorando con i rivoluzionari, ho documentato ibombardamenti incessanti dell’esercito di Assad sulla popolazione civile ad Aleppo. Anche in questo caso i guerriglieri del FSA (Free Syrian Army) mi hanno aiutato a svolgere il mio lavoro. In Mali, invece, ho documentato la “marcia di liberazione” dal lato dell’esercito francese e maliano. Stare agli ordini di un esercito regolare, chiaramente, limita gli spostamenti e le azioni. Durante l’offensiva di Diabaly, nella zona nord-ovest del paese ai confini con la Mauritania, ai giornalisti è stato permesso entrare nel paese liberato solo giorni dopo l’entrata dell’esercito. Molte volte quando si lavora a contatto con un esercito regolare, si deve sottostare ai blackout informativi imposti.


© Fabio Bucciarelli/AFP, A Free Syrian Army fighter prepares to fire a rocket-propelled grenade against government forces.

Mimmo Càndito nella sua prefazione al libro L'odore della guerra: inviati al fronte (di cui sei autore insieme a Stefano Citati) scrive: «Il reporter di guerra è un fratello bastardo di Lord Jim. Non ha i tormenti e le angosce che accompagnano il racconto di Conrad, però sa bene di essere stato un avvoltoio che ha vissuto sulla pelle di chi la morte brutta ce l’ha per destino, ne ha raccontato la vita grama e le miserie, gli ha parlato, li ha anche inchiodati di scatti e di inquadrature puttane, e poi comunque, se n’è tornato a casa, lasciando laggiù questi che dovranno morire. Loro, non lui. Alla fine, questa traversata nel corridoio della morte lascia però segni incisi in profondità. Per alcuni, sarà l’impronta indelebile d’un cinismo autoprotettivo, una sorta di scudo psicologico che respinge le forme d’identificazione della realtà. Per altri, invece, è quella empatia solidaristica che Kapuscinski assegna come compagna duratura d’ogni esperienza che verrà dopo il viaggio nel racconto della morte». A te cosa è rimasto e rimane dentro?

La guerra ha la forza di mettere a nudo i sentimenti dell’uomo. Gli stessi sentimenti che ti travolgono e ti rimangono dentro. Come detto prima, ogni conflitto ti lascia segni indelebili, incisioni che ti porti dentro. Quello che rimane sono i pianti di dolore delle madri che hanno perso i loro figli sotto i bombardamenti, le lacrime difelicità di un popolo che si è liberato dal suo dittatore, le migliaia di civili che abbandonano le loro case e si mettono alla ricerca di un posto sicuro, le persone che incontri sul cammino, con cui parli e condividi un pezzo di vita immerso in una realtà così diversa da quella a cui siamo abituati. Le cene e le notti passate insonni con l’orecchio vigile, dove ogni rumore lo associ ad un mortaio, la gente tumefatta agli ospedali ed i sorrisi che gente che ha perso tutto riesce a donarti. Credo fermamente che l’empatia, il potere sentire e trasmettere i sentimenti con la gente che ci circonda, sia una caratteristica fondamentale per il giornalista che decide di raccontare il dramma umano.


© Fabio Bucciarelli/AFP, A Free Syrian Army sniper looks through a hole in the wall at government army positions in the Karmal Jabal neighborhood of the northern city of Aleppo.

Come ti prepari prima di partire? E come entri in relazione con la gente immersa in una realtà in emergenza o in conflitto?

Prima di partire mi informo sul conflitto in atto: leggo, cerco fonti giornalistiche alternative e soprattutto parlo con una rete di amici che fanno il mio stesso lavoro. Ci si aiuta molto fra di noi, soprattutto fra freelance: se arrivo io per primo in un’area di conflitto passo le informazioni ai miei amici, se arrivano prima loro, le passano a me. Si crea una sorta di famiglia di giornalisti, pronta ad aiutarsi nei momenti più duri e a scambiarsi informazioni necessarie per svolgere nel migliore dei modi il proprio lavoro.

Come cambia muoversi da fotografo freelance o in assignment per qualche testata?

Se si lavora con assignment, chiaramente si hanno le spalle coperte, le spese pagate e la sicurezza di vendere il proprio lavoro e vederlo pubblicato. Questo a scapito di una libertà di movimento e di scelta di tematiche a volte imposte dalla testata. Lavorando senza assignment, si devono pagare di propria tasca le spese, ma in compenso si ha più libertà sulla scelta di cosa documentare.


© Fabio Bucciarelli/AFP, A rebel fighter fires his Kalashnikov while his comrade loads his weapon on the rooftop of house during fighting against Syrian government forces in the Bab el-Adid district in Aleppo.

Sei laureato in Ingegneria ma poi hai scelto, relativamente tardi, la macchina fotografica come strumento di lavoro. Perché?

Dopo avere lavorato per più di un anno come ingegnere, mi sono reso conto che non faceva per me. Lavorare su tematiche che non mi interessavano con tempistiche imposte, non mi faceva sentire bene. Inoltre l’idea di lavorare anni in modo statico dietro una scrivania mi spaventava. Ma soprattutto sentivo l’esigenza di dedicare la mia esistenza a una causa più nobile rispetto il mero guadagno. E così ho deciso di cominciare adocumentare realtà deboli e lontane dai nostri occhi.

Hai di recente iniziato a scrivere per alcuni quotidiani da vari fronti; si possono conciliare scrittura e fotografia?

Mi piace scrivere, e accompagnare alle mie immagini un testo. Ho la fortuna di lavorare con editori che mi hanno sempre lasciato carta bianca sul cosa scrivere e come scriverlo. Molte volte il fotografo si spinge più avanti delwriter in zone di conflitto. Solitamente scrivo da questo punto di vista.

Progetti futuri?

Ho intenzione di continuare a documentare realtà sfortunate e sofferenti, conflitti e mancanza di diritti umani. Credo che per quest’anno continuerò a documentare il mondo arabo e ilMedio Oriente. Mi piacerebbe documentare la fine del conflitto siriano.


Wei Seng Chen, Malesia - 12 febbraio 2012, Batu Sangkar, West Sumatra, Indonesia



Chi è

Prima di diventare fotoreporter Fabio Bucciarelli si è laureato in Ingegneria delle Telecomunicazioni nel 2006 presso il Politecnico di Torino. Durante gli studi universitari ha frequentato la Univiersidad Politecnica di Valencia dove si è specializzato nello studio delle immagini digitali. Dal 2009 si dedica completamente alla fotografia e comincia a lavorare come fotografo di staff per l’agenzia LaPresse/Ap.

Fabio ha vinto diversi premi internazionali ed il suo lavoro è stato pubblicato dal Time Magazine, The New York Times, Stern, The Times, The Guardian, The Wall Street Journal, LA Times, Foreign Policy, The Telegraph, Vanity Fair, La Repubblica, La Stampa, Le Monde. Negli ultimi anni ha documentato i più grandi conflitti mondiali soffermandosi sugli effetti della guerra sulla popolazione civile. Recentemente ha affiancato alla fotografia il giornalismo scritto. Nel 2012 ha pubblicato il libro "L’Odore della Guerra" sul conflitto libico.

www.fabiobucciarelli.com